Partoriamo, diventiamo mamme, e ci troviamo in braccio un esserino totalmente dipendente da noi.
La natura e l’istinto contengono in sé le risorse necessarie per metterci in contatto con lui, ma molti altri fattori vi si possono sovrapporre: la cultura che negli ultimi decenni ha prediletto l’idea del distacco mamma/bimbo, il contesto, qualche parere infondato (e spesso non richiesto) su come/quanto/quando un neonato “dovrebbe mangiare”, o anche semplicemente la stanchezza, lo stravolgimento del post parto, assieme a un eventuale scarso supporto (materiale o emotivo) di contorno.
Ci si può trovare a interrogarsi su ogni quanto attaccare il neonato al seno.
La risposta, dal punto di vista della fisiologia, è ormai unanime: “a richiesta”. Più si attacca, prima arriva la montata. Più si attacca, più latte si produce. Se si attacca a richiesta si produce il giusto per quella richiesta. Più si attacca, meno latte rimane immagazzinato nel seno troppo a lungo, meno proteina FIL si accumula (si tratta di una proteina che inibisce la produzione di latte). Se le poppate sono frequenti, la concentrazione di grassi nel latte è maggiore (perché avviene una sorta di “miscelazione” tra primo e secondo latte). Più si attacca e più recettori della prolattina si sviluppano (e, di nuovo, più latte si produce). Insomma, i vantaggi dell’attacco “a richiesta” sono molteplici e noti.
Tuttavia ci si può anche chiedere: “Com’è questa richiesta?”. Ed è qui che vorrei aprire un’importante questione…
Viviamo nell’epoca della frenesia, del fare, della velocità che caratterizza molti ambiti del vivere quotidiano, e spesso ciò pervade anche le aspettative che investono la donna che ha appena affrontato il passaggio di vita enorme che è il parto. Talvolta questi concetti sono così radicati nella nostra cultura e nella nostra mente, che non ce ne accorgiamo nemmeno.
D’altra parte i ritmi naturali a volte stridono con questi. Non è strano né infrequente che la nostra natura di madri (ma non solo: ciò vale per aspetti anche esterni alla maternità), se la ascoltiamo attentamente, ci gridi il suo bisogno di calma, di ascolto, verso noi stesse e verso il nostro piccolo.
Ecco che, per quanto riguarda il suo bisogno di mangiare, nella frenesia della vita di oggi può capitare che a catturare l’attenzione sia quasi esclusivamente ciò che si impone in modo deciso, ciò che “fa rumore”: il pianto, quel pianto capace di frenare la mamma da qualsiasi cosa stia facendo.
Ma è davvero l’unico modo, il pianto, con cui il piccolo ci comunica la sua fame?
No, in realtà ci sono molti altri segnali che vengono prima del pianto. Vediamoli insieme…
Alle prime sensazioni di fame il neonato generalmente comincia a muoversi, a dimenarsi un pochino, apre frequentemente la bocca e gira la testa di qua e di là, come a voler cercare il seno.
Se questi segnali non vengono colti, i movimenti del piccolo diventano più intensi, comincia a stiracchiarsi e, come segnale inequivocabile di fame, si mette le manine in bocca.
All’ultimo stadio di questo processo, attraverso il quale il neonato tenta di comunicare il suo bisogno di mangiare, ecco che insorge il pianto, via via sempre più forte e accompagnato da agitazione e rossore del volto. A questo punto per qualche bambino potrebbe essere addirittura difficoltoso attaccarsi al seno, e si rende necessario calmarlo prima di poterlo nutrire.
Viene da sé, quindi, che non è necessario il pianto perché vi sia fame o sete, e viceversa talvolta il piccolo piange per motivi diversi dalla fame o dalla sete (tuttavia sappiamo che spesso il seno è in grado venire incontro alla grande anche a bisogni di altro tipo, come ad esempio quello di coccole o consolazione).
L’importanza di cogliere questi segnali è ancora maggiore nel caso di bimbi nati con basso peso o con scarsa crescita, oppure bimbi tendenzialmente “pigri” al seno, intenzione di diminuire e/o eliminare eventuali aggiunte e, in generale, in tutti quei casi in cui l’avvio dell’allattamento incontri qualche intoppo.
Quindi, una riflessione dedicata a noi mamme: spegnere i rumori di sfondo, quanto più possibile rallentare (fisicamente ma anche mentalmente), concedersi e concedere al proprio bambino il regalo della quiete, del contatto (non solo fisico ma emotivo) e dell’ascolto, potrebbe farci riscoprire una grande fiducia in noi stesse e nel nostro saper decifrare i segnali del nostro piccolino, che nonostante non sia in grado di parlare, sa comunicare.
Valeria Paoletto – Facilitatrice in Allattamento per l’associazione Allattamento e Dintorni APS