In Allattamento, testimonianze

Ho vissuto la mia gravidanza in modo ambivalente, tra le stelle e la profondità del mare.

Camilla Vittoria è entrata nella nostra vita in modo inaspettato, in un momento di crisi per la nostra coppia. A 18 anni ho rischiato di morire per un tumore all’ovaio destro: in seguito alle cure, mi era stato detto che dovevo rimanere controllata per tutta la vita e che forse non avrei potuto avere figli. Sicuramente più avrei aspettato, peggio sarebbe stato.

A fine luglio compio 34 anni e Camilla Vittoria è tra le nostre braccia da due anni e mezzo. Durante la gravidanza ho deciso di farmi seguire dalla ginecologa che mi aveva prescritto le cure per il tumore: ho preso ogni cosa un passo alla volta, vivendo nel presente.

All’inizio la placenta non si alzava, poi non c’era abbastanza liquido amniotico e nel mentre ho dovuto fare esami in più, perché c’era la possibilità che la patologia e le cure inerenti a essa, mi avessero causato danni a cuore e polmoni (per questo mi era stato imposto di non aumentare più di 8 kg).

A metà giugno il responso che aspettavo come si aspetta Babbo Natale: potevo partorire naturalmente. Panico! Ma l’Universo pensa a te prima ancora che lo faccia tu: ho conosciuto Laura Cocchetti (Consulente  per l’Allattamento IBCLC) e, quasi contemporaneamente, ho scoperto l’esistenza delle Case per il Parto. Solo che avevo già oltrepassato la 32esima settimana e non avevo i soldi per potermi permettere il parto in casa, oltre al fatto che avevo tutti contro.

Così ho contattato un’amica del liceo, che lavora come ostetrica a Magenta e le ho spiegato tutti i miei turbamenti. Alla fine del nostro incontro, mi ha detto una cosa importante e che nel mio cuore ha fatto la differenza: “Non pensare a questa gravidanza come a qualcosa legato a ciò che ti è successo in passato: questa è un’altra storia.”. E nella mia mente ho cominciato a ripetermi: “Andrà tutto bene.” Ho compreso che non volevo attraversare le stesse porte e percorrere li stessi corridoi, che mi portavano a rivivere la notte nella quale ero quasi morta.

Così, ho preparato insieme al mio compagno, che mi guardava sempre più accigliato e perplesso, una lettera per il parto, che ho fatto leggere alla mia ginecologa durante l’ultimo controllo (24 luglio 2018) e la sua reazione mi ha convinto a partorire a Magenta: “Questo è un ospedale universitario, non possiamo garantirle ciò che chiede in questo scritto. Se avesse condiviso prima questi pensieri con me, le avrei suggerito un parto in casa.” Come potevo spiegarle che quei pensieri erano maturati con me? Che erano cresciuti insieme alla mia pancia? Me ne andai dal suo studio con un groppo in gola e le lacrime che scivolavano sulle mie guance. Ero sola, con la mia pancia sempre più pesante, sulla metropolitana che mi riportava al parcheggio dove avevo lasciato la macchina. Ero in guerra con me stessa e continuavo a rimproverarmi: avrei dovuto capire prima cosa volevo per me e la mia bambina e organizzarmi di conseguenza. Anziché fare la lista nascita alla Prenatal avrei dovuto aprire una lista nascita per il parto in casa.

Probabilmente, per qualche strana magia o connessione, Camilla Vittoria lesse i miei pensieri e intravvide la battaglia di “e se..” contro “la realtà”, che stavo combattendo nel mio cuore e che mi faceva stare così male. La sera (erano le 19) del 26 luglio sono iniziate le prime contrazioni, mentre mangiavo un gelato, insieme alla mia migliore amica di sempre. Ho guidato fino a casa e ho chiamato la mia amica ostetrica, che mi ha tranquillizzato, dicendomi che smontava alle 22 e, munita della mia lettera per il parto, istruiva le colleghe sulle mie volontà: “ero in buone mani”. Anche se nessuna ginecologa in quell’ospedale mi aveva ancora visitata. Mi ha dato delle istruzioni semplici: “Ascolta il tuo corpo, non tenere il conto della frequenza delle contrazioni, ma osservane l’intensità. Se il dolore peggiora, fai un bel bagno caldo: se si placano vai a dormire, se proseguono vieni in ospedale.”

Ho cenato con il mio compagno e poi ci siamo messi sul divano a guardare il dvd “The Secret”: poi lui è andato a Vigevano a prendere il nostro cane (abitiamo a Parona) e io sono rimasta sul divano a guardare un dvd su come nascono i bambini nelle diverse zone del mondo. Fuori dalla finestra infuriava la tempesta e, appena Stefano è tornato, gli ho chiesto di prepararmi la vasca per il famoso bagno caldo: sono rimasta a mollo per ¾ d’ora fino a che non mi si sono rotte le acque. Uscita dalla vasca, mi sono sdraiata sul divano ancora per un po’: Rocky, il nostro cane, e il mio compagno vegliavano su di noi, mentre reggevo la borsa dell’acqua calda sulla schiena, dove sentivo più male. Stefano teneva il tempo delle contrazioni sul cellulare, ma non gli ho mai chiesto quanto fossero frequenti, fino a quando il dolore non si è fatto più intenso e ho sentito il bisogno di spingere.

Ci siamo vestiti in fretta e siamo partiti alla volta di Magenta: non pioveva più, ma la luna quasi piena di quella notte era ancora nascosta dalle nubi. Alle 3 eravamo in pronto soccorso ostetrico per le domande di rito (ero una sconosciuta per la ginecologa in turno). Tra una contrazione e l’altra rispondevo alle domande e cercavo gli esiti degli esami nella mia cartelletta, per poi passarli alla ginecologa: meno male che ci sono medici che sostengono che non siamo in grado d’intendere e di volere mentre partoriamo. Poi mi fanno firmare il modulo per il certificato di nascita, dove devo inserire il nome della bambina: panico! Desideravo guardarla in faccia, prima di decidere tra i due nomi che erano emersi da ore e ore di discussioni con Stefano. Non ero pronta a scegliere, così su due piedi. Li ho scritti entrambi mentre lui scuoteva la testa in segno di resa. Mi sono avviata verso la sala parto sulle mie gambe, ma a metà corridoio mi sono accasciata a terra perché il dolore era troppo intenso: in sala parto ci sono arrivata su una sedia a rotelle alle 3.30 di quella notte senza stelle.

Avrei voluto partorire in acqua, ma le ostetriche mi hanno detto che non c’era tempo: ero già dilatata di 6 cm e Camilla Vittoria aveva fretta di nascere, dovevo solo lasciarla andare. Mancavano 20 giorni al termine e lei voleva nascere quella notte di luna rossa: il suo temperamento risoluto e deciso si stava già mostrando ai nostri occhi. Qui è iniziata la parte più difficile, la nostra prima lotta: più lei premeva per scendere e più io trattenevo la muscolatura. Provavo ad ascoltare i consigli delle ostetriche e del mio compagno, ma non riuscivo a trovare una posizione comoda, né a respirare profondamente. Era tutto bloccato nel mio petto.

Una delle due ostetriche mi ha chiesto perché non la lasciavo andare: avevo paura. Paura di non riuscire a proteggerla. L’altra ostetrica mi ha chiesto se volessi vederla e ho acconsentito. Hanno posizionato uno specchio rotondo davanti a me e ho potuto vedere la sua testolina tra le mie gambe: improvvisamente sapevo cosa fare! Ho afferrato le gambe, nell’incavo delle ginocchia, e le ho portate al petto: non so dove ho trovato la forza, ma ho cantato il suo nome, con una voce che non era mia e il respiro ha aperto la via, la muscolatura si è sciolta e con due spinte Camilla Vittoria era tra le braccia del suo papà. Erano le 4.45 del 27 luglio 2018.

Mi viene da piangere ogni volta che ci penso: anche ora, mentre scrivo. È stato il momento più stravolgente e completo della mia vita. Mi sono sentita invincibile e grata con ogni fibra del mio essere. Stefano me l’ha messa sulla pancia con la testolina sul mio petto: piangeva e strillava forte, ma appena ci siamo guardate negli occhi ha smesso. Le ho sussurrato: “Tu sei uno Spirito Eterno. Grazie per averci scelto.” e ho continuato a cantarle il suo nome.

Abbiamo fatto il mini lotus per le due ore che ci hanno lasciato stare solo noi 3 dopo il parto. Camilla Vittoria non si era ancora attaccata al seno, ma era tranquilla e placida in quell’abbraccio sonoro: la mia pelle nuda contro la sua, ancora appiccicosa. Emanava un profumo indescrivibile. La nostra placenta, ancora parte di lei, la stava nutrendo di tutto ciò di cui aveva bisogno. Purtroppo l’infermiera pediatrica ha interrotto la magia: ha afferrato la sua testolina e l’ha spinta a forza verso il mio seno. Lei è scoppiata a piangere e non si è attaccata. Se potessi tornare indietro, mi farei dimettere dopo il parto.

Il post-parto in ospedale è stato un disastro: tutto ciò che ostacola l’allattamento è stato fatto, senza il mio consenso, quando portavano la bimba fuori dalla stanza per le visite (soluzione glucosata, ciuccio, biberon di latte artificiale). Tutto perché Camilla Vittoria piangeva e strillava, paonazza e disperata, sino a procurarsi il vomito, ogni volta che la allontanavano da me. Ho compreso come si sentono i miei pazienti depressi: svuotati, senza la forza di alzarsi dal letto, ogni parte del corpo pesante come un macigno, impossibile da sollevare.

Stefano, il mio faro in quei giorni blu e tempestosi, e la mia compagna di stanza, una mamma moldava al suo terzo parto, mi hanno aiutato a estrarre il colostro e a raccoglierlo con una siringa senza ago, per poterlo dare a Camilla Vittoria, che, come la prima volta, strillava e rifiutava il seno ogni volta che lo vedeva.

Ho dovuto fare la pazza, letteralmente, minacciando denunce e urlando appena qualcuno del personale ospedaliero provava a entrare nella nostra stanza, affinché qualcuno mi ascoltasse: alla mattina del terzo giorno avevo il tiralatte e i paracapezzoli, grazie a un’ostetrica, che avevo conosciuto al corso preparto, e a una dolce puericultrice, sulla quale avevo buttato addosso tutta la rabbia e la frustrazione, dopo l’ennesima notte insonne. Temevo che mi portassero via la mia bambina, senza chiederlo, mentre dormivo: era già successo una mattina presto. Avevo aperto gli occhi e lei non era nella sua culletta: l’avevano presa per visitarla. Mi era sembrato di sentire un rumore, ma le palpebre erano troppo pesanti, dopo una notte insonne di pianto, e non avevano risposto tempestivamente ai miei comandi.

Era tardi per le loro tabelle e i loro standard: avevo i seni che scoppiavano, ma secondo alcune di loro la montata lattea non era arrivata e lo avevano stabilito senza visitarmi. Quella sera, Camilla Vittoria è stata portata nel reparto di neonatologia e messa sotto le lampade per l’ittero. Ho dovuto acconsentire all’aggiunta artificiale, nonostante mi tirassi il latte: evidentemente la montata lattea c’era stata. Andavo da lei ogni volta che me lo permettevano, per cercare di attaccarla al mio seno tra le lacrime: mi hanno fatto sentire come una degenerata, che voleva affamare sua figlia. Ho dovuto sopportare i loro sguardi di compatimento, mentre mi spiegavano come attaccare la bambina al seno: 10 minuti uno e 10 minuti l’altro, contraddicendo ogni cosa che mi era stata detta durante il corso preparto e da Laura.

Ci hanno dimesso dopo 5 giorni, in cui riuscivo a dormire solo se Stefano era nella stanza a vegliare su Camilla Vittoria, come regalo per il mio compleanno.

Lei si attaccava al seno solo con il paracapezzolo, ma secondo le tabelle dei pediatri non cresceva abbastanza: così le davamo 120 ml di aggiunta artificiale ogni giorno. Desideravo allattare, tanto quanto ho desiderato partorire naturalmente, ma anche in questo caso, nessuno intorno a me capiva quanto stessi male per quella singola aggiunta quotidiana. Quanto mi facesse sentire incapace e incompiuta.

Dopo qualche giorno che eravamo a casa, ho chiamato Laura e mi sono affidata a lei: su suo consiglio ho portato la bambina dall’osteopata. Tiravo il latte mentre dormiva e glielo proponevo con il biberon appena si svegliava urlante e affamata; poi l’attaccavo al seno nudo e poi con il paracapezzolo. Stefano, nel frattempo, tirava il latte dall’altro seno, perché ne avevo un sacco. Ho imparato a legare la bambina in fascia con Mariavittoria, una consulente del portare: dormiva profondamente solo in fascia o tra le mie braccia. Ho iniziato a praticare yoga in fascia al Melograno di Abbiategrasso e a seguire gli incontri organizzati dall’Associazione Allattamento e Dintorni APS a Vigevano. Dopo tutto questo e durante lo scatto di crescita tra il terzo e il quarto mese, Camilla Vittoria ha tolto il paracapezzolo e si è attaccata al mio seno, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Da quando è nata ha visto la pediatra 3 volte.

Diventare mamma mi ha insegnato tante cose: è stato il mio rito di passaggio, una rinascita spirituale. Un passo dopo l’altro, vivendo nel presente, sto crescendo insieme a lei.

Non sempre le cose vanno come te le aspetti o come le avevi pianificate. Vanno semplicemente come dovevano andare.

Non possiamo sfuggire al dolore, ma soltanto passarci attraverso. Avere un compagno, che, magari non capisce fino in fondo, ma comprende e ti resta accanto, spesso fa la differenza.

La felicità è nei piccoli gesti tanto attesi, quanto inaspettati: come una piccola manina che toglie un paracapezzolo o una mamma “straniera” più esperta, che non parla la tua lingua, ma ti aiuta a raccogliere gocce di colostro e t’insegna a massaggiare il seno per farlo uscire.

A volte i medici non sanno: le mamme sanno. Andrebbero ascoltate e aiutate ad ascoltarsi. La cosa più importante e difficile è stata ascoltarmi e mettere a tacere i consigli non richiesti che mi piovevano addosso: così ho potuto ascoltare anche la mia bambina e i suoi bisogni, trovare l’equilibrio migliore per noi due soltanto.

In seguito, ho potuto far pace con me stessa: accettare i miei limiti e capire che l’unico modo per imparare è tentare, sbagliare e riprovare di nuovo. Gli errori sono i nostri migliori maestri.

La perseveranza è il motore che ci spinge a camminare, un passo alla volta, dopo tantissime cadute. Quando riusciamo a sospendere il giudizio e a perdonare noi stesse riusciamo a perdonare anche gli altri e finalmente lasciamo andare.

 

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